Profuma di tradizione e convivialità, la focaccia messinese è un’icona dello street food siciliano. Con impasto soffice e condimenti classici come scarola, tuma e acciughe, racconta la storia gastronomica di Messina. In questo articolo scopriremo origini, ingredienti e consigli per prepararla anche a casa senza perdere la sua identità.
Profuma di forni cittadini, di serate condivise e di tradizioni che non passano mai di moda: la focaccia messinese è uno dei simboli gastronomici della città sullo Stretto. Nata come cibo semplice e conviviale, si è trasformata nel tempo in un’icona dello street food siciliano, grazie a un impasto soffice e a un condimento essenziale fatto di scarola, tuma e acciughe, talvolta arricchito dal pomodoro.
In questo articolo raccontiamo storia, ingredienti e preparazione, con consigli utili per valorizzare al meglio la focaccia messinese anche a casa, senza snaturarne l’identità.
Le tracce della focaccia messinese affondano tra Ottocento e primo Novecento, quando i panificatori locali fissano una ricetta che diventerà il riferimento in città e provincia.
La sua fortuna cresce nel secondo dopoguerra: da piatto “povero” diventa presenza fissa in panifici e rosticcerie, fino a rappresentare una vera “cena tipica” per i messinesi. La diffusione nella Sicilia orientale ha generato piccole varianti, ma l’ossatura resta immutata: impasto alto, cottura in teglia e condimento codificato.
Il segreto della focaccia messinese sta nell’impasto, che deve risultare alto, morbido e ben idratato. Le versioni più fedeli alternano farina 00 e semola rimacinata, una lenta lievitazione, un tocco di strutto o olio extravergine e cottura a temperatura elevata in teglie generose.
L’obiettivo non è la croccantezza estrema, bensì una morbidezza uniforme che trattenga il condimento senza inzuppare, con alveolatura fine e bordo appena dorato.
Scarola (o indivia riccia), tuma, acciughe e pomodoro compongono il quartetto che definisce la focaccia messinese. La scarola, appena scottata o saltata, dona freschezza e una pungenza erbacea; la tuma apporta dolcezza lattica e cremosità; le acciughe bilanciano con sapidità marina; il pomodoro a pezzi o a fette completa il profilo con acidità e succosità.
Origano, pepe e un filo di olio rifiniscono senza coprire. Anche in altri piatti siciliani, come quelli a base di ortaggi e verdure marinate, si ritrovano simili equilibri di dolcezza, acidità e profumi mediterranei (basti pensare alla caponata, che esplora il “trionfo delle verdure” nella tradizione siciliana) — spunti che aiutano a comprendere meglio le radici comuni della cucina isolana.
Si stende l’impasto in teglia unta, si lascia rilassare e poi si farcisce con scarola ben asciutta, tuma a fette, acciughe e pomodoro. Una presa di sale va dosata con attenzione per non eccedere, considerando le acciughe.
Cottura in forno caldo finché il formaggio fonde e l’impasto prende colore dorato. Una breve assestata fuori dal forno permette ai succhi di ridistribuirsi, così la focaccia messinese si taglia senza cedere, conservando morbidezza e profumo.
La tradizione messinese conosce anche il “pidone” (o “pitone”), una sorta di calzone fritto che condivide gli stessi ingredienti della focaccia messinese.
Se la focaccia punta su altezza e cottura al forno, il pidone privilegia crosta esterna dorata e cuore filante grazie alla frittura. Due espressioni della stessa cultura del “pane farcito”, perfette in contesti diversi ma unite da scarola, tuma e acciughe.
La focaccia messinese dà il meglio appena tiepida, quando la tuma è morbida e il profumo dell’origano è più evidente.
In tavola si sposa bene con bianchi mediterranei come lo Zibibbo di Pantelleria dal profilo sapido e agrumato o con birre a bassa gradazione che non coprano la delicatezza dell’impasto.
Per il servizio, tagli ampi e regolari favoriscono la condivisione; per il giorno dopo, una breve rigenerazione in forno restituisce morbidezza e aromi.
In un solo morso di focaccia messinese c’è l’equilibrio tra mare e campagna, tra semplicità e tecnica, tra memoria e presente. È un piatto che non cerca effetti speciali, ma che convince per materie prime riconoscibili e sapori netti, diventando rito cittadino e biglietto da visita di una cucina che sa essere popolare e identitaria.
Portarla in tavola significa ripetere un gesto antico, condividere una storia e celebrare l’essenziale.